Elicotteri, bombardamenti, napalm, Vietnam, guerra. Dopo tre spot irriverenti ci si immerge nella giungla al ritmo delle mitragliatrici; i buoni perdono pezzi, il protagonista le braccia, ma non riesce a piangere e allora stop, tutto da rifare.
Ben Stiller gira un film che ironizza sul mestiere dell’attore, sull’essere star, sul perdersi in una giungla per ritrovare emozioni da restituire ad un pubblico sempre più in cerca di verità. Il film nel film non va bene ed il finto regista, prima di saltare su una vera mina, abbandona gli attori nella selva privandoli di comodità e contatti con il mondo. La guerra che si trovano ad affrontare, nonostante sia frutto di una falsa autobiografia, è reale, ma i protagonisti la intendono frutto di un copione ed accordano disponibilità a ripetere le scene anche quando subiscono energiche percosse.
La prima mezz’ora di Tropic Thunder regala scene esilaranti, i cinque attori, piuttosto stereotipati, risultano accattivanti e si assiste volentieri alle loro idiozie in attesa di un imprevedibile sviluppo. L’attore in crisi che vorrebbe tornare sulla cresta, quello tossico, l’esordiente, il musicista prestato al cinema e quello disposto ad dedicarsi totalmente al proprio personaggio fino a mutare la percezione della sua stessa pelle. Quando però intervengono gli improbabili vietnamiti, guidati da un ragazzino fan del protagonista nei panni di un ritardato che sussurra ai cavalli, il film imbocca una strada senza ritorno arricciandosi su citazioni di citazioni, concentriche storie che si aprono e si chiudono come gag ed effetti che tolta la ricerca e l’imprevedibilità non stupiscono più.
Si può ridere per l’ironia con la quale i film sul Vietnam vengono scimmiottati e derisi ma non ci si può non rammaricare dell’occasione perduta da una sceneggiatura che spara i colpi di scena tutti all’inizio della storia e che si trascina scontatamente per il resto del film, senza il coraggio, da attori e registi dai quali nessuno si aspetta questo, di imboccare una strada dove perdersi veramente senza chiudere con in mano un finto oscar nella consapevolezza di non meritarne di reali.
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