Fine anni Sessanta, Berlino ovest: un sanguinoso scontro di piazza, la carica della polizia sui dimostranti che protestano contro le scelte politiche della Germania occidentale (la visita dello Scià di Persia come gradito ospite di Stato, la guerra in Vietnam). Le prime scene del film La banda Baader Meinhof, incalzanti e spietate, fanno venire in mente le immagini dell’attualità italiana di questi giorni, tra manifestazioni studentesche ed ipocrisie governative. Non sembri un paragone azzardato, lo scopo della sequenza iniziale è proprio ricostruire il contesto storico dell’epoca, di profondo scontento, corruzione morale e materiale, ingiustizie e disparità sociali, terreno fertile per il sorgere ed il proliferare di fanatismi e gruppi eversivi.
«È un film generazionale – ha affermato il regista Uli Edel (indimenticato autore di Christiana F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino) alla Festa del Film di Roma, dov’è stata presentata l’opera, fuori concorso – che vuole dar conto dell’atmosfera di euforia di quegli anni in cui sembrava accendersi una scintilla: tutti desideravano un cambiamento Noi abbiamo voluto descrivere la storia di tre persone che, ad un certo punto, vanno “oltre”: imbracciano le armi e si avviano incontro ad un destino fatale. Questi personaggi, figli della generazione nazista e quindi ossessionati dalle scelte dei loro genitori, hanno affascinato molti giovani, tra luci e ombre. Ma lo Stato ha voluto distruggerne il “mito” ed anche nel film non abbiamo voluto idealizzarli, raccontiamo una storia vera denunciando i gesti criminali».
La ricostruzione della parabola terroristica della RAF (Rote Armee Fraktion), però, non ha convinto la critica: tanto per cominciare nel film viene dato troppo spazio all’azione e poco alla riflessione; in secondo luogo i leader storici della banda, Andreas Baader, Gudrun Ensslin ed Ulrike Meinhof, vengono descritti in maniera sommaria, sorvolando sulle sfumature e le loro scelte appaiono frutto di un’impulsività incontrollata, priva di strategia, con passaggi poco logici; e ancora, si tiene conto solo marginalmente, nel decennio descritto, di alcune componenti storiche fondamentali. Dall’escalation di attentati che condurrà i leader della RAF al carcere, fino ai maltrattamenti subiti, agli scioperi della fame ed al discusso “suicidio” collettivo che seguì i tentativi fallimentari di liberazione/scambio ostaggi durante il processo – con il dirottamento dell’aereo Lufthansa – questi personaggi non sembrano affinare il proprio carisma politico, come invece realmente fu (e senza il quale non si capirebbe la forte presa sui giovani) ma si divincolano piuttosto fra attacchi di depressione e divisioni interne.
Ma vi sono elementi a favore del film: il ritmo serratissimo, che fa entrare lo spettatore in sintonia con il crescente pathos degli eventi, e la ricerca del “cinéma-vérité”: «La chiave del film – spiega il regista – doveva essere l’autenticità: quando allestivamo le luci sul set usavamo solo la luce naturale, abbiamo evitato i dolly e le macchine da presa con obiettivi speciali; inoltre la maggior parte delle riprese è stata fatta con la camera a mano per dare agli attori la massima libertà. Quando ho potuto, ho girato nelle location originali (il Congresso sul Vietnam al Politecnico di Berlino ed il processo nel tribunale della prigione di Stammheim), cercando di evitare gli effetti speciali e di usare, nelle sparatorie, il numero di pallottole realmente sparate all’epoca».
In Germania il film è già un successo di pubblico e registra circa un milione di spettatori al giorno, coinvolgendo sia i giovani che non avevano mai sentito parlare prima della RAF, sia i genitori degli anni Settanta che possono finalmente parlare con i figli, prendendo le distanze dalla violenza dei casi-limite, di un’eccezionale epoca di lotte e sogni infranti. Fra gli interpreti, la brava Martina Gedeck (Le vite degli altri, Le particelle elementari), nel ruolo di Ulrike Meinhof e Moritz Bleibtreu (Lola corre, Münich, Le particelle elementari) in quello di Andreas Baader.
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[…] gli annunciati Valzer con Bashir (che due giorni fa ha battuto proprio Gomorra ai Golden Globe), La banda Beider Meinhof, La classe e Everlasting Moments, ma anche Revanche, The Necessities of Life, Departures, Tear This […]
Anyway, visto il poderoso autoreferenzialismo del 99% del cinema italiano…direi che gliela passo. 🙂
Concordo con te sul fatto che non sia certo un brutto film, ci mancherebbe. Il vero “difetto” (che però in sè e per sè – intendiamoci – tale non è) è che è un film pensato, secondo me, per il pubblico tedesco, che quei personaggi li conosce dalla cronaca e li sa distinguere. Per noialtri si rischia di confonderli, perchè l’analisi psicologica dei singoli (ma non delle “ragioni” delle loro azioni) lascia abbastanza a desiderare.
Ciao!
secondo me il film parla poco delle azioni e tanto del pensieri, dei contorcimenti, dei dubbi di chi fa certe scelte e perchè…a me è piaciuto molto, e mi ha fatto molto pensare…