Wim Wenders non si discute: si ama, o si odia. Sono questi i sentimenti contrastanti che ispirano spesso i “grandi” artisti nell’evolversi della loro opera, nell’inesorabile mutare delle diverse fasi d’interpretazione della realtà. Così accade a Wim Wenders: già figlio di una generazione fortemente intellettualizzata, per giunta tedesco, per giunta spregiudicato sperimentatore di nuove tecnologie, oggi in un’età che amplifica (ma lui ne ha davvero sempre avuti) gli interrogativi trascendental-social-filosofici antichi quanto il mondo.
Cosa c’entra tutto questo con Palermo Shooting, l’ultimo film del geniale regista? Tutto, perché in quest’opera Wenders si confronta faccia a faccia (tra un incubo e l’altro dell’aitante protagonista) nientemeno che con Signora nostra Morte corporale (come il buon San Francesco usava chiamarla), cui uno spiritoso direttore di casting affida il volto irridente di Dennis Hopper.
Ma facciamo ordine: la prima parte del film è davvero interessante, avvincente e girata magnificamente. Lo spettatore è gettato a corpo morto in mondi ignoti, le location esistenzial-professionali di un famoso fotografo di moda, Finn/Campino, che non si ferma mai: scatta con ferocia, guida la spider, litiga con la ex-moglie per chi si tiene la casa, inanella buche innumerevoli alle donne che ovunque lo aspettano con bottiglie pronte da stappare, comanda a bacchetta i suoi malcapitati collaboratori, vive e lavora in meravigliosi luoghi/loft/grattacieli avveniristici e semi-spaziali. Ma c’è un “ma”: il fotografo sta male, ha incubi e visioni, si sente soffocare, soffre d’insonnia e, quando si addormenta, sogna un arciere che lo insegue per ucciderlo, finché il sogno diventa così realistico che in varie occasioni il nostro fascinoso protagonista rischia di rimanerci secco.
Finché un giorno, sulla scia di un incidente quasi mortale che lo fa fermare a riflettere e di una grossa nave diretta a Palermo, Finn decide di andare a fotografare quella città, come fosse un luogo delle origini, e vi rimane a lungo – un po’ per caso un po’ per desiderio – prendendosi una pausa dalla sua vita “in orbita”. Vi rimane, assaporando le luci e il calore del Mediterraneo, per cercare di ottenere risposte alle sue misteriose ed autodistruttive visioni, ed un bel giorno incontra Flavia/Giovanna Mezzogiorno, una restauratrice che parla perfettamente inglese e pure lui, tedesco di Dusseldorf (città natale di Wenders), a un certo punto già parla italiano e i due si cominciano a frequentare come per fatal destino. Ma niente sesso, siamo tedeschi, e neppure relazioni sentimentali chiare e tonde, solo sostegno reciproco, ricerca delle radici, ferite comuni.
L’incontro con la morte, nella vita o nel sogno sarà lo spettatore a scoprirlo, aprirà al nostro protagonista la via alla libertà, al sonno ristoratore ed alla pacificazione con sé stesso. Nella seconda parte, il film si perde un po’: Wim Wenders vuole dire troppe cose, troppi significati, troppi contenuti, troppo di tutto. Una vaga sensazione di sentir recitare sermoni, seppure serviti su un piatto di classe, disturba lievemente gli affezionatissimi wendersiani, mentre è considerata intollerabile dai suoi denigratori.
La rock-star Campino, del gruppo punk Toten-Hosen, è bravissimo nella sua interpretazione sofferta e visionaria; Giovanna Mezzogiorno, sempre uguale a sé stessa, non fa impazzire ma è “tanto” nostrana. Straordinaria come sempre la colonna sonora, con un’apparizione-cammeo del mitico Lou Reed. Il film è in ogni caso da vedere, perché Wenders è sempre e comunque un maestro, come dimostrano, qui come altrove, l’originalità della sceneggiatura, la cura delle luci e l’uso delle tecnologie.
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