E’ stato il film di apertura del Sundance 2008 e non stupisce. Colin Farrell e Brendan Gleeson, perfettamente affiatati grazie al loro talento ed alla comune origine irlandese, fanno da perfetto contraltare ad uno dei boss più freak della storia del cinema, interpretato da un misurato and very british Ralph Fiennes. La vecchia battaglia per l’indipendenza dallo sfruttatore inglese trasposta sul grande schermo? Anche, ma non solo. Data tale importante premessa, si potrebbe credere che l’indubbio valore di In Bruges risieda principalmente nel cast ma non è così.

Ciò che rende questa seconda prova di regia del drammaturgo irlandese Martin McDonagh (la prima è Six Shooter) così ben riuscita, è la sceneggiatura, scritta dallo stesso regista. Ci troviamo di fronte, infatti, ad uno script talmente limato nei tempi, nei ritmi, nei cambi di scena, da avvincere come una droga e spingere il pubblico a dissentire fortemente con il tormentone di Farrell che potrebbe essere riassunto così: “Non esiste alcuna buona ragione per venire a Bruges, men che mai per morirci!”. Ed è proprio da questo piccolo scrigno d’arte belga, Bruges, che si comprendono la lungimiranza ed il mestiere di McDonagh. Cosa fanno, infatti, due irlandesi costretti a rimanere (sino a nuovo ordine) piantonati in una città di cui ignoravano persino la collocazione geografica, un luogo buio e piatto (secondo loro)…se non cercare immediatamente un pub?

La “politically incorrectness” che serpeggia lungo tutto il film è, infatti, un’altra delle cifre stilistiche che lo rendono così piacevole e divertente. Come non sganasciarsi dalle risate di fronte a Farrell che stende un nano a colpi di karatè? E la lite con l’omone che vuole salire sulla torre? Ci troviamo di fronte a ben 107 minuti di gag che si susseguono senza soluzione di continuità, tra un colpo di pistola e l’altro. Sangue, violenza, un passato terribile (che spiega la reclusione forzata dei due protagonisti in Belgio) enfatizzato dal cattolicesimo del protagonista (come potrebbe essere altrimenti, essendo nato in terra d’Irlanda?) rende arduo da tollerare, amori e flirt, uno splendido giro turistico tra i luoghi che hanno ispirato Hieronymus Bosch ed un lessico turpe (Maybe that’s what ‘ell is, an entire eternity spent in fucking Bruges) ma irresistibile che ricorda molto il Tarantino delle Iene e di Pulp Fiction.

Questa pellicola è la prova che Colin Farrell ha speso i suoi anni migliori interpretando pellicole lontane dalle sue corde. D’altra parte, la sindrome da sex symbol ed il temperamento incline all’autodistruzione (è stato lui stesso a fare dichiarazioni da Guinness – mai brand fu più azzeccato – sulla quantità di alcool da lui ingerita in una sola notte!) lo hanno spinto verso il successo facile e come dargli torto? Questa prova, quindi, insieme a quella regalataci con l’intenso A Home at the End of the World (Venezia 2004), lo sdogana come attore brillante, ben lontano dallo stereotipo che le major vorrebbero affibbiargli.

Menzione d’onore per il grande Brendan Gleeson, il quale interpreta una versione dark del ruolo che fu di Walter Matthau in La strana coppia, aggiungendovi, però, ed il merito è ancora di Mr. McDonagh, un che di paterno che lo rende semplicemente adorabile e strizza l’occhio al suo personaggio guercio in Harry Potter. La fama del 38enne drammaturgo irlandese (ma nato a Londra) era già consolidata grazie al successo ottenuto a teatro con The Pillowman ed il pluripremiato The Lieutenant of Inishmore. Il rischio, quindi, di cadere nella trappola del teatro filmato era molto alto. Era, perché In Bruges è grande cinema.

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