American Gangster

Ridley Scott è un regista privo di un genere preferenziale. Egli predilige il rinnovamento, cambiare registro una tantum per affondare le mani su nuovi e diversificati progetti… toccando quei punti esperienza mai raggiunti prima d’ora. Ed è per questa ragione che, prima o poi, anche il padre di Alien si sarebbe addentrato nei meandri dei gangster movie americani. Il suo è uno stile che si frappone tra quello rilassato e incisivo di Francis Ford Coppola e quello meno ovvio, sporco e sudaticcio di Martin Scorsese. La mano del regista insegue con sottile fedeltà storica la dirompente guerra del Vietnam, mantenendo l’atmosfera di panico e crisi idealistiche del periodo, focalizzandosi però sull’effetto sociale, e quindi su New York e realtà affini. In questo contesto la droga diventa un palliativo quasi necessario per uscire indenni da un periodo di terrore e gratuita mistificazione ai danni della popolazione.

Steven Zailian – sceneggiatore premio Oscar per Schindler’s List – ha collaborato con Scorsese in Gangs of New York, tanto da aver strutturato la sceneggiatura di American Gangster tenendo bene a mente l’epicità e il dramma che accomunano tutti i grandi capomafia della storia. Il film trae ispirazione dalla vita di Frank Lucas, ex autista di colore che prestò la sua vita al servizio di un noto capomafia di Harlem. Morto d’infarto, Frank decide di ristabilire un certo tipo di ordine per le strade prendendo di petto gli affari interni. La sua politica monopolizzante volta “alla qualità a metà prezzo” – in quanto non fece uso di intermediari – bloccò drasticamente la concorrenza dando alla storia l’ennesima (quanto emblematica) icona che seppe mettere alle strette la mafia italiana.

“La mia società vende un prodotto che è migliore di quello della concorrenza
ad un prezzo inferiore a quello della concorrenza”

Denzel Washington presta così il suo volto al personaggio di Frank Lucas, personalità pacata e particolarmente legata alla sfera familiare, nonostante non lesini (se necessario) improvvisi attacchi d’ira nei riguardi della stessa. Oltretutto grazie al suo fiuto per gli affari, incrementò il suo impero raggiungendo cifre astronomiche: si parla di decine di milioni…
Di contro Russell Crowe, ormai pupillo di Scott, impersona Richie Roberts: l’incorruttibile agente che, potendo raccogliere per sé un milione di dollari non segnati, decide di consegnarli comunque alla polizia. In questo scontro/incontro il regista ricrea un nuovo termine di paragone per il genere, un perfetto mix di suspance e dramma, contrassegnato dall’interpretazione di un cast assolutamente formidabile. Non un film che segna una svolta incisiva del genere; bensì la perfetta continuazione di un filone consacratosi con Marlon Brando e Al Pacino con la trilogia de Il Padrino.

Con questi presupposti Ridley Scott non poteva di certo mancare il bersaglio. Il suo è un grande film, la cui solida mano si denota in ogni inquadratura. La storia permette di condensare in 157 minuti di pellicola un’impeccabile fotografia, unita ad un montaggio che sebbene diluito da una tempistica poco frenetica, non smette ti tenere incollati alla sedia.

Nell’anno in cui Martin Luther King avrebbe perso la vita e nel periodo di stasi del campione di boxe Muhammad Alì, Frank Lucas contrassegna col suo intelletto volto al profitto e alla sacralità della famiglia, l’importante scacco etico dei neri sui bianchi. Una rivincita giocata su diversi campi, sebbene l’ironia della vita ci porti a toccare il picco più alto per poi ritornare, nel finale, al “povero” e vuoto punto di partenza.

“Sei un amico”

 


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