Ci sono campi di battaglia che non odorano né di napalm, né di gas nervino, ma di disinfettante e di formalina, trincee non scavate nella terra ma ricavate negli spazi familiari di casa propria, nemici che non indossano uniformi e contro i quali non basta un colpo ben assestato per aggiudicarsi lo scontro, ma che incarnano la pura, invincibile essenza del Male.

Ci sono anche anni di terapia che fanno sfigurare colline conquistate nel giro di pochi giorni ed eroi la cui missione non è decimare plotoni di più o meno consapevoli soldati semplici per il prestigio di una mostrina, ma assicurare la sopravvivenza di un’unica, preziosissima esistenza indipendentemente dalle privazioni che ciò richiede e come se da essa dipendesse il destino di tutti. Infine, ci sono film che nascono su un territorio statunitense di frontiera o sulle linee del fronte e che nell’arco di qualche anno, complice la vita, finiscono in un piccolo locale alternativo parigino, protagonisti che depongono armi e maschere e che si trasformano in una coppia di altri sé distanziati dalla realtà dei fatti soltanto dalla semi-parodistica scelta del nome di battesimo, sparatorie, inseguimenti e cariche sostituiti dal confronto cronico e terribile con gli ostacoli del quotidiano, un avversario più autentico di qualsiasi antagonista posticcio comunque condannato per contratto a soccombere.

Si riescono a intravedere, in La guerra è dichiarata, gli scampoli di spensieratezza e di disinvoltura con cui la ora trentanovenne Valèrie Donzelli avrebbe voluto dare un’impronta più marcatamente di intrattenimento al suo secondo lungometraggio: non c’è più nessuno da braccare se non se stessi in quei trenta nervosissimi secondi di corsa solitaria per il corridoio della clinica dopo aver affidato per la prima volta il figlio alle cure dei medici, la tormenta vivaldiana e il montaggio alternato che accompagnano la concitata riunione di famiglia a ricovero avvenuto riportano alla mente la drammatica ed epica adunanza di guerrieri distanti, le consultazioni con il personale ospedaliero assomigliano al briefing di una missione militare in piena regola, con tanto di radiografie a rappresentare l’area del conflitto.

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Unico ricordo di quell’embrione, forse bellico, forse action, forse addirittura western, è, significativamente, il titolo, che fortunatamente la Sacher Distribuzione di Nanni Moretti ha mantenuto invariato, e che da solo riassume alla perfezione tutte le peculiarità che contraddistinguono il film e le tappe della sua genesi, dal superamento della vicenda privata alla rielaborazione finzionale

Vent’anni prima che John Lennon si appropriasse del suo aforisma, il giornalista Allen Saunders scriveva che la vita è quello che ci capita mentre progettiamo di fare dell’altro, e nel caso del candidato francese agli Oscar della scorsa edizione il risultato è proprio un miracoloso connubio fra necessità e intenzione, fra ciò che si ritiene opportuno e ciò che si desidera, fra l’equilibrio della cronaca e l’invenzione filmica: specie se raffrontata con il vivace ma acerbo esordio La Reine des Pommes (inedito in Italia, è stato presentato al Festival di Locarno 2009), questa felice opera seconda documenta, correndo tutti i rischi sorti dalla volontà di esporsi in prima persona, la crescita umana e soprattutto autoriale di Valèrie Donzelli, passata dalla post-adolescenza tardiva e a tratti patologica del suo alter ego di debutto alla donna responsabile e matura della sua nuova fatica, dalle chiacchiere un po’ pedestremente rohmeriane di ieri alla inventiva sempre relativamente citazionista ma già distintiva e singolare di oggi.

Sarebbe errato, infatti, considerare La guerra è dichiarata un’operazione nata dall’esigenza di esorcizzare una personalissima odissea o una pellicola veicolata principalmente dal fattore emotivo, anzi, è quest’ultimo a porsi in secondo piano e a facilitare un salubre e lucido distacco, conseguenza diretta e naturale di un pericolo che è stato affrontato, scongiurato ed assimilato.

Donzelli non ha bisogno di ricorrere a scene madri e, per sua stessa ammissione, non intende “tenere in ostaggio gli spettatori” facendoli temere per la sorte dei suoi personaggi: se è già reso esplicito dai primi minuti che il piccolo Adam uscirà incolume dagli otto, soffertissimi anni di trattamento, meno prevedibili sono invece il percorso formativo seguito dai suoi genitori (la regista e il suo ex-compagno, nonché padre di suo figlio, Jeremie Elkaïm) e le scelte esistenziali che ne condizioneranno il passaggio all’età adulta, gli eventi che, ben più delle fasi dell’iter curativo del bambino, rappresentano il fulcro narrativo e morale dell’opera.

Perché La guerra è dichiarata è innanzitutto la storia di due persone che arrivano alla soglia dei trent’anni nell’agnosticismo del dolore, degni esponenti di un’epoca di “ragazzini viziati e impreparati di fronte al futuro” – sempre per citare le parole di Donzelli – che acquisiscono coscienza del proprio ruolo nel mondo e che impareranno a mano a mano e sulla propria pelle il valore ineludibile e doloroso del sacrificio, e, benché la morte sia sempre a un passo, l’aspetto davvero rigenerante di questo delicato, minuscolo film girato quasi interamente con una fotocamera Canon EOS 5D Mark II da poco più di duemila dollari e da una troupe ridotta al minimo indispensabile è la centralità indiscutibile dell’impeto vitale nonostante tutto, la forza insopprimibile della reazione, il risveglio brusco e imperativo dal sonno di chi ha dato tutto per scontato.

Certo, questa giovane autrice della periferia lorenese non fa nulla per nascondere il suo evidente debito nei confronti della Nouvelle Vague e dei suoi epigoni, come nel finale (unico momento in 35mm, peraltro), dove si incrociano i ralenti di chiusura di Wes Anderson e l’universo iconico di François Truffaut, a volte il desiderio di stemperare il tema si concretizza in qualche sequenza meno riuscita (il numero musicale vagamente demyano in automobile) e alcuni guizzi registici che infrangono provocatoriamente le strutture convenzionali, a partire dalla decisione di adottare tre distinte voci narranti, tradiscono ancora una certa immaturità e un’eccessiva fiducia nella libertà espressiva garantita dal mezzo cinematografico (va ricordato che Donzelli ha intrapreso la carriera da attrice e da regista proprio per liberarsi della rigidità schematica dei suoi studi in architettura): sono difetti che però vengono subissati dall’impeto artigianale che trabocca da ogni inquadratura, dallo spirito quasi giocoso con cui si risolvono anche le situazioni sulla carta più tragiche, dallo stile che sa bilanciare con efficacia il rigore di un’ossatura solida e tradizionale con piccole tentazioni pop prima che quest’ultime diventino stucchevoli.

La guerra è dichiarata, in sostanza, è un film sulla malattia allo stesso modo in cui Hereafter di Clint Eastwood è un film sulla morte – cioè, non lo è – e, anziché limitarsi ad essere una testimonianza intima e individuale, finirà per diventare col tempo una vera e propria chiamata alle armi per una generazione che, prima o poi, si accorgerà di doversi necessariamente, urgentemente, risolutamente svegliare per reagire.

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