Lo vuoi un consiglio? Tornatene a casa.
Il divorzio è pe’ quelli ricchi.
Dai, Giulio, la ruota gira.
La mia s’è incastrata però.
Azzerata la certezza delle “quote tricolori” garantite dal defunto Controcampo Italiano, annullata la garanzia un po’ pavida di almeno un premio assicurato per il Belpaese in un palmares forzatamente esteso, è tornato il tempo per la cinematografia nostrana di guadagnarsi riconoscimenti e consenso esclusivamente nell’ambito delle selezioni internazionali e di confrontarsi con il resto del mondo senza preventivi complessi di inferiorità spesso ingiustificati.
Forse proprio per questo a inaugurare quest’oggi la sezione Orizzonti in Sala Darsena, qualche ora dopo la proiezione del franco-belga Tango libre nella assai più contenuta Sala Perla, è stato un regista di casa nostra, Ivano De Matteo, con il suo Gli equilibristi, storia di un comune impiegato statale della Capitale trovatosi improvvisamente a fare i conti con una situazione economica instabile dopo essersi separato da sua moglie.
Ripercorrendo il tragitto di questa recente selezione filmica collaterale, ci si confronterebbe con la celebrazione definitiva di autori impostisi grazie alla peculiarità, all’anticonformismo e all’autonomia del proprio linguaggio, dalla dilatazione esasperata ed ipnotica dell’opera del filippino Lav Diaz al documentarismo post-umano di Gianfranco Rosi, senza dimenticare il passaggio rappresentativo di veterani ormai assodatissimi come Edgar Reitz, Werner Herzog, Amir Naderi e Pere Portabella. Oggi la categoria, a nove anni dalla sua instaurazione e dopo aver inglobato l’altrimenti poco visibile Corto Cortissimo, ha probabilmente ridimensionato le proprie ambizioni e semplificato le coordinate delle pellicole che lo compongono, e ci vorrà tempo per comprendere se, inabissatosi Controcampo Italiano, i concorrenti nostrani a Orizzonti – di rado agguerriti, ancor più raramente memorabili – saranno in grado di farsi notare.
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Indipendentemente dalla riuscita del film o meno, va subito chiarito che Gli equilibristi, in un’annata che annovera partecipanti come Yesim Ustaoglu, Ibrahim el Batout e, in particolare, Wang Bing – probabilmente il più grande documentarista della sua generazione – finisca per sembrare un pesce fuor d’acqua. Sia inteso, non esiste una soglia minima di bizzarria o di atipicità per accedere alla sezione, però si stenta a rintracciare nel progetto di De Matteo quell’idea di appartenenza alle “nuove correnti del cinema mondiale”, come recita la denominazione stessa di Orizzonti.
Detto questo, siamo di fronte, nel bene e nel male, all’espressione sintomatica di una produzione nostrana sospesa fra industria e autorialità, il ritratto fedele di una transizione politico-sociale in cui il passato sembra sempre pronto ad incombere ed il futuro resta incerto: è difficile ignorare – e non apprezzare – la passione con cui l’autore di Ultimo stadio riassume in una vicenda semplice e privata lo stato di crisi (esistenziale, ancor più che semplicemente economica) di una generazione stanca di dipendere e di gravare sulle spalle altrui, desiderosa di affrontare qualsiasi sacrificio pur di mantenere l’orgoglio dell’autodeterminazione, capace anche delle più laceranti privazioni se questo significa tutelare chi verrà dopo.
Ed è così che Giulio Colelli, il solito, contagioso e bravissimo Valerio Mastandrea, ci riporta alla mente le piccole e un tempo impercettibili abnegazioni dei nostri padri (e delle nostre madri), quando garantire il futuro di un figlio significava anche togliersi il pane di bocca: è vero, la vivacità anche autoironica del primo tempo finisce per risolversi in uno sviluppo fin troppo cupo e che in certi punti non si pone problemi a premere sul pedale del patetismo (sottotitolato anche dalle piacevoli, ma alla lunga pedanti musiche di Francesco Cerasi), ed è un vero peccato che, come pretesto per scatenare gli eventi (la lotta quotidiana per la sopravvivenza di chi ha dato tutto troppo per scontato) si usi il solito, trito e tipicamente nostrano, espediente dell’infedeltà coniugale, peraltro lasciato quasi subito in secondo piano.
Per fortuna, il volto malincomico di Mastandrea (in questo senso, il solo e autentico erede della mesta ilarità di Nino Manfredi) e l’innegabile perizia tecnica di De Matteo riescono ad arginare i difetti e a far perdonare alcune incongruenze (Giulio raggiungerà pure vette di povertà assoluta, ma i soldi per le sigarette, accese quasi in ogni scena, non mancano mai, e per un uomo che vive da settimane nella propria automobile il telefonino è sempre miracolosamente carico) oltre a un finale fin troppo consolatorio e semplicistico, nel quale tutto sembra risolversi con una repentina telefonata di riconciliazione. Ma se il Kaurismaki degli anni ottanta, alla fine, rimane un modello davvero irraggiungibile, il risultato è comunque apprezzabile e piuttosto coraggioso, non povero di battute memorabili (vedi incipit) ed in grado di abbattere le restrizioni di cinema da “due camere e tinello” con l’impellenza del proprio messaggio.
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