Si arriva alla seconda giornata ufficiale di programmazione con il pensiero confortante di bilanciare i toni seri e canonicamente festivalieri del giorno precedente con l’unica effettiva commedia tradizionale del Concorso, ma anche con il prospetto più sconsolante di dieci giorni di Mostra composti esclusivamente da visioni non propriamente d’intrattenimento. E’ quindi un pubblico piuttosto ringalluzzito e bendisposto ad affollare la Sala Darsena nonostante il consueto risveglio all’alba, una platea pronta ad accogliere il primo ospite d’oltralpe con una significativa alternativa ai fischi rancorosi e per certi versi anche preventivi delle edizioni passate (si tengano a mente i casi recentissimi di Garrel, Cordier e, assai più immeritatamente, Chereau).
Se si eccettuano gli schiamazzi consapevolmente trash di Tai chi 0 e gli sparuti lampi ironici (specie amarognoli) de Gli equilibristi, fra le fila dell’ex-Palagalileo scoppiano le prime autentiche, rumorose risate, anche se il fatto in se non contribuisce ancora ad alzare il livello della manifestazione: Superstar di Xavier Giannoli attraverso la vicenda di un uomo comunissimo finito paradossalmente e senza una ragione effettiva agli onori delle cronache e sotto i riflettori della tv nazionale, abusa a tal punto della sua bizzarria da sembrare alla fine una barzelletta tirata eccessivamente per le lunghe, dove il regista gioca furbescamente all’accumulo di paradossi e di reductiones ad absurdum al punto tale da dimenticarsi che puntare il dito contro i media e il loro cannibalismo a quasi quarant’anni da Quinto potere – pur aggiornando il discorso all’era dei memes e della comunicazione virale – non è più un discorso particolarmente originale (persino l’analogo episodio con Benigni di To Rome with love mostrava la corda nei suoi 25 scarsi minuti di durata), e, visto che si ricorre principalmente a gag scombiccherate degne del Takeshi Kitano di Kantoku banzai!, il divertimento, se c’è, ha il fiato corto. All’attivo restano soprattutto la perfetta adesione del cast (con uno straordinario e a tratti irresistibile Kad Merad nel ruolo principale) e un ottimo senso del ritmo che Giannoli aveva già dimostrato pienamente nel precedente A l’origine.
Fuori concorso si presenta l’epopea criminale di The iceman di Ariel Vromen, che all’inizio non pare discostarsi più di tanto da un ordinario bignami di scorsesismo applicato all’estetica del serial americano contemporaneo, ma che, con il vertiginoso scorrere dei minuti – e con il più massiccio e tangibile procedere della Storia, riassunto alla perfezione in ricostruzioni d’epoca da manuale – riesce ad aggiornare considerevolmente la già abusata dicotomia “padre di famiglia esemplare”/”efferato assassino” con l’aiuto fondamentale della prova mimetica e profondamente inquietante di un Michael Shannon che ha saputo col tempo affrancarsi dal titolo di “Christopher Walken della nuova generazione” e confermare il proprio carisma non solo da caratterista di vaglia, ma, in questo caso, anche da protagonista assoluto, qui nel ruolo del sicario Richard Kuklinski, davvero esistito: il regista israeliano (ma statunitense di formazione) rispetta consequenzialmente il percorso di nascita, ascesa e caduta dell’antieroe malavitoso, ma riesce anche a infondere un senso incombente di tragedia e di dolore esistenziale, con Kuklinski, visibilmente invecchiato, ad aprire e chiudere il film, a monologare in primo piano in penombra come il colonnello Kurtz.
All’ora di pranzo apre ufficialmente i battenti la Settimana della Critica, con il film collettivo Water, che resterà all’esterno della competizione e non potrà ambire ad alcun premio, operazione che riunisce un manipolo di 8 registi provenienti da Israele e Palestina, quasi tutti molto giovani e per la prima volta dietro la macchina da presa, in un’antologia di cortometraggi aventi come tema ricorrente quello dell’acqua, sia essa sotto forma di fonte il cui inquinamento semina il sospetto fra due comitive in gita in campagna, di collirio per una anziana attrice sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti o di un bagno caldo fatto durante l’infanzia che funge da ricordo felice per un soldato al fronte: l’iniziativa è lodevole, i propositi sono alti e i temi toccati sono importanti, ma l’inevitabile immaturità del linguaggio e l’inesperienza dei pur molto volenterosi ragazzi, uniti al soverchiante didascalismo progetto che finisce per imporsi sui contributi di ciascuno, rendono Water un’occasione importante ma purtroppo mancata;
Il Concorso finalmente comincia a dare i primi segni di vita con il riuscito At any price, di Ramin Bahrani: se in passato il giovane autore statunitense di origine iraniane ha cercato un po’ faticosamente di conciliare la propria formazione filmica accademica con le proprie infatuazioni per il cinema d’autore straniero, correndo il rischio di fornirne una rimasticazione addolcita e ad uso e consumo di un pubblico meno intransigente, con At any price l’universo di riferimento è quello USA allo stato più puro, con un contesto provinciale antropologico e geografico che pesca a piene mani da L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich – e di conseguenza, dalla letteratura di Larry McMurtry – che si trasforma a mano a mano in un mélo rurale à la A casa dopo l’uragano, fatto di contrasti padre/figlio, di faide familiari e di fughe dalla provincia: Dennis Quaid, imprenditore agricolo un po’ piazzista, un po’ trafficone, forse fiutando il ruolo del rilancio, preme un po’ troppo sul pedale del gigionismo, ma è un difetto veniale all’interno di una pellicola onesta che ambisce da subito allo status di classico;
La giornata si conclude, faticosamente, con Paradies: Glaube, di Ulrich Seidl: girato quasi interamente con camera fissa, centrata e frontale, è il grande salto in avanti che il Festival stava aspettando, due dolorosissime, gelide ore in cui l’autore di Canicola illustra, pur concedendosi qualche ghigno, la realtà di due coniugi – una fondamentalista cattolica devota all’autoflagellazione e un uomo musulmano che ha perso ogni punto di riferimento dopo l’incidente automobilistico che lo ha reso disabile – vittime e carnefici di se stessi, dell’altro e dei ferrei e, a tratti, distorti dettami etici, ma soprattutto religiosi con cui hanno scelto di vivere. Non rinunciando agli ingredienti-cardine del suo cinema, come l’ossessione per la nudità dei corpi sfatti, il carattere laido e bestialmente orgiastico del sesso, la follia grottesca dello squallore di tutti i giorni, Seidl rischia spesso molto grosso – come nella sequenza dell’amplesso con il crocifisso – ma, con uno stile riconoscibilissimo e più rigoroso che mai, mette in piedi il più disperato, dissennato e profondamente umano gioco al massacro degli ultimi anni, non avendo paura di mettere in scena la violenza fisica e la sopraffazione psicologica, ma penetrando nell’animo umano con la lucidità e il rispetto di un vero filosofo.
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