Da solo ero felice, con gli altri dovevo recitare.
Niccolò Ammaniti nel suo romanzo breve Io e te descrive con pochi, efficaci tratti la figura di Lorenzo, frugando tra i suoi pensieri, rivelando sensazioni e idee che albergano nella mente di un quattordicenne la cui (im)possibilità di essere normale svela tutta la sublime atrocità di quel periodo chiamato adolescenza.
Bernando Bertolucci, The Dreamers, torna dietro la macchina da presa con una storia (tratta dall’omonimo romanzo di Ammaniti, qui in veste di co-sceneggiatore) della quale, pur conservando l’identità e il luogo della breve convivenza dei due protagonisti, ne fa un oggetto altro, nel senso più esemplare di quella “trasmutazione del testo” di cui parlava Umberto Eco. Del resto, lo stesso regista ha dichiarato di non riuscire a “diventare l’illustratore di una storia” e che, pur partendo da un romanzo, sa bene che esso, nel film, “sarà fortemente trasformato”.
Dimentichiamoci quindi della pagina che si legge e concentriamoci sull’immagine che si guarda. La lettura e lo sguardo, esperiti come rapporto fondante con un testo, vanno quindi al di là di qualsiasi confronto che potrebbe rivelarsi pedissequo o noioso. Sono, semplicemente, due aspetti della visione/emozione: separati, unici… Due, appunto, come due sono i protagonisti: fratellastri per caso, coinquilini per forza. Il passo doppio che cadenza il ritmo di una giovinezza che, per uno sembra una condanna (quella del malessere dell’adolescenza) e, per l’altra, lo è per davvero.
Lorenzo e Olivia sono degli outsider, tagliati fuori (per volontà e/o fato) da quel mondo fatto di regole e percorsi segnati come quelli tracciati nella sabbia del formicaio che il ragazzino porta con sé in cantina.
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Bertolucci, ancora una volta, come in Ultimo tango, L’assedio e The Dreamers, incastona i proprio personaggi in uno spazio chiuso, un microcosmo in cui quel “fuori del dentro” si fa universo emotivo e, nel contempo, limite tangibile di quella libertà che – paradossalmente – proprio entro quei confini pare esprimersi al meglio. Nella cantina-rifugio in cui Lorenzo (Jacopo Antinori) ha organizzato la sua fuga, preparando i suoi personali elementi di sopravvivenza (i viveri, il libri, il computer), irrompe il disordine spontaneo di Olivia (Tea Falco) e l’impatto non può che essere deflagrante.
Ciò che il ragazzo vive, accanto alla ritrovata sorella, vale in pochi giorni, un’esperienza di anni. Scoprire un altro punto di vista (sui genitori, sul padre che hanno in comune ma anche sui ricordi d’infanzia, inconsciamente rimossi, ma inevitabilmente condivisi) scuotono Lorenzo da quel torpore autoreferenziale – inteso, in senso più ampio, anche come una sonnolenta inerzia borghese – e gli fanno fare un balzo in avanti, repentino quanto scioccante, verso quella crescita che andava rifiutando. Al tempo stesso Olivia, aggredita dagli spasmi dell’astinenza ma anche da quelli di un livore mai sopito, sembra addolcire il suo personale inferno nell’inatteso sentimento di appartenenza, di autentica fratellanza.
Lorenzo e Olivia diventano così due mondi in collisione i cui frammenti riconducono, sì, al quadro del romanzo di partenza ma (ri)compongono uno scenario dove un altro tipo di emozione tenta di farsi strada. Il regista parmense, infatti, “congela” la parola di Ammaniti, frena la suggestione emotiva – e non priva di grottesco – della sua prosa e ne solidifica il sentimento. Una regia che studia geometricamente lo spazio e traccia, all’interno di quel microcosmo/cantina, le linee di fuga di entrambi i protagonisti, fotografandone i volti in chiaroscuro, incastonandoli in strettissimi primi piani come a volerne scrutare, nel profondo, la pelle fino all’anima e poi, “trasmutando” la pagina, si libra nell’aria e, quasi a traboccare oltre il bordo della carta, offre alla “sua” Olivia un’altra possibilità. Bertolucci trasforma, muta, “tradisce” ciò che è scritto e racconta una propria storia, che si fa anche personale rinascita del suo cinema, lontano da quello che più abbiamo amato ma, nondimeno autentico.
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Molte grazie, CultFrame! 😉
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