“Tutto quello che avreste voluto sapere sul maggio francese ma non avete mai osato chiedere”. Ecco, nel bene e nel male, la sintesi di questo pregevole quanto freddo e, a tratti, noiosetto ultimo lungo di Olivier Assayas, presentato a Venezia 69. Tantissime idee e grandissima maestria si scontrano con uno svolgimento pedissequo alla The Dreamers, privo del benché minimo colpo di scena.
Atmosfere perfette e ricostruzione impeccabile, non v’è dubbio, ma senza conoscerne in anticipo la forte matrice autobiografica ed autoreferenziale (a partire dai nomi dei due giovani protagonisti principali), la narrazione rimane fredda come i quadri che l’affascinante fanciulla dai capelli rossi (complimenti per l’eccelso casting) ammira ad Amsterdam, seguendo le suggestioni del giovane militante di cui è invaghita: “Ho spesso l’impressione che i film nascano da soli, che quasi
mi si impongano. E’ successo con Qualcosa nell’aria. Da molto tempo sentivo molto forte l’esigenza di dare non esattamente un seguito, ma un prolungamento, ad un mio film del 1994 [Sfidiamo chiunque a ricordarlo], L’Eau froide. Lo considero come un secondo primo film, un modo di rimettere in gioco la mia pratica del cinema”.
Ottima la col0nna sonora, composta di una selezione così azzeccata da far venire un orgasmo al buon Nick Hornby. E’ lo stesso Assayas a commentarla per noi: “Ne L’Eau froide, avevo messo delle <<hit>>, le musiche che si sentivano nelle feste. Ma i miei gusti più intimi sono in Qualcosa nell’aria. Sid Barrett, Dr. Strangely Strange, Incredible String Band, Captain Beefheart, Nick Drake, anche Amazing Blondel…Per la scena nel parco dell’ostello a Firenze, ho scelto un pezzo di Phil Ochs che risale piuttosto all’inizio degli anni 60, persistenza tenace, dieci anni dopo, della <<protest song>>. Per l’inizio della festa da Laure, avrei potuto scegliere qualcosa di più <<rock>> ma il blues dissonante di Captain Beefheart è, nei miei ricordi, la nota stessa dell’epoca”.
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Notevolissimo l’approfondimento delle tematiche politiche relative al Maggio Francese ed alla sua coda sino all’inizio degli anni 70: davvero impossibile fare meglio! La ricostruzione è meticolosa e coerente, quasi documentaria. Peccato che siamo al cinema e sei quintali di suggestioni non fanno necessariamente un grande film. Il primo
rullo merita, infatti, un 7.5 ma il secondo raggiunge la sufficienza a stento…se si eccettua la scena della festa da Laure, quasi un film a parte, la cui fascinazione colloca di diritto Apres Mai nel pantheon del grande cinema d’autore europeo.
In conclusione, questo film va visto, apprezzato, goduto ma con la riserva che la sceneggiatura, riferimenti storici a parte, è ben lontana dal meritare l’Osella che le è stata tributata a Venezia 69 o, il che non ci stupisce, il livello delle altre in concorso era così basso da far spiccare quella di Apres mai. Come se non bastasse, l’ultimo lungo di Assayas è stato anche designato Film della Critica 2012 dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani! C’è da pensare che un qualsiasi film di Rosi, oggi, dovrebbe andare direttamente agli Oscar come candidato italiano per il Miglior Film Straniero e tenuto conto che lo splendido Cesare deve morire è stato visto, in Italia, da meno di 200.000 spettatori…non saremmo tanto lontani dalla verità.
Siamo, infatti, di fronte ad un film densamente pittorico, quasi alla Greenaway, in cui le immagini che contano davvero sono quelle statiche non i cinemi. Assayas è un appassionato pittore, il protagonista dipinge per gran parte del tempo, la natura (elemento imprescindibile della narrazione) è la quarta e la più bella protagonista femminile.
Dimenticate, quindi, il susseguirsi delle scene. Sulla vostra retina, rimarrà ben altro.
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